Articoli tratti dal “il Giornale” del 04.02.2007 sul
divorzio e sul senso della vita
Elisabetta Canori Mora
Nacque a Roma nel 1774,
figlia di un ricco possidente. Ma la sua famiglia tracollò economicamente e nel
1796 la ventunenne e affascinante Elisabetta fu data in sposa al giovane e
brillante avvocato Cristoforo Mora. Pochi mesi di gioia e poi lui perse la
testa per una sciacquetta. Perse anche tutti i soldi
in un affare sballato e diventò cattivo. Prese a maltrattare la moglie,
arrivando anche minacciare di ammazzarla. Lei dovette vendere i gioielli e
perfino l'abito da sposa per tirare avanti. Dovette andare a stare dal suocero.
Due figli le nacquero morti. La terza sopravvisse ma
Elisabetta si ammalò e dovete darla a una nutrice. Quando andò a riprenderla,
la piccola era sporca e denutrita. Elisabetta si ammalò di nuovo, arrivando a
un passo dalla morte. Si riprese solo per tornare ad affrontare suoceri e
cognate che davano a lei la colpa delle mattane del marito. Nel 1812 non resse
più e si trovò un appartamentino. Dovete traslocare ben quattro volte in dieci
anni, sempre sopportando i tradimenti del marito. Si fece terziaria dei
Trinitari e continuò pregare per il rinsavimento del coniuge. Lo ottenne ma solo dopo la morte, che la colse nel 1825 dopo
quasi trent'anni di martirio coniugale (oggi, amici e parenti le avrebbero
consigliato di divorziare appena dopo le prime corna). Solo allora Cristoforo
Mora si rese conto di quale perla avesse perso. Si fece terziario anch'egli,
per onorare in qualche modo la memoria di quella santa donna. Non gli bastò e
nel 1834 vestiti il saio francescano tra i conventuali, diventando sacerdote
col nome di padre Antonio.
“Il
santo del giorno” di Rino Cammilleri
Sempre dallo stesso numero “Tipi italiani” di Stefano Lorenzetto.
«Da 36 anni con la
moglie lobotomizzata
ma non ho mai pensato di farla finita»
GIULIANO FIORANI, parlando della moglie, oltre ad affermare: “È ammalata da 36 anni ma non ho mai pensato di lasciarla”, la chiama «principessa», perché la prima volta che la vide indossava uno scamiciato in principe di Galles. Oggi la sua Gabriella ha 62 anni, però è come se ne avesse 12: «Una bambina da accudire 24 ore su 24»
«Con
una moglie malata in casa ci vuole più coraggio a scappare che a restare», mi
dice Giuliano Fiorani. Conobbe la sua Gabriella 45 anni fa. «Da allora non ci
siamo più mollati, né per un giorno, né per una sera, mai, mamma mia che roba».
È stata l'unica donna della sua vita. La chiama «principessa», perché la prima
volta che la incontrò lei vestiva uno scamiciato in principe di Galles, «e
calzettoni color bordeaux». Fu amore a prima vista. Era l'antivigilia di Pasqua
del 1962, Gabriella Donati aveva appena 16 anni. Oggi è come se ne avesse
quattro di meno, invece dei 62 che l'anagrafe le assegna. «Io ne ho appena
fatti 67, ma lei ha l'età mentale di una bambina di 12. Al mattino me la
ritrovo che dorme con la testa appoggiata sul mio petto, come fanno i figli quando s'infilano nel lettone dei genitori».
Nel
1971 la principessa subì un intervento chirurgico che solo a nominarlo fa
inorridire: lobotomia. È un'operazione neurochirurgica mediante la quale si
recidono le fibre nervose di un lobo cerebrale o si asporta una porzione di
encefalo. Fu ideata nel 1925 e presto abbandonata per le devastanti conseguenze
sulla personalità dei pazienti, che ne usciva annientata. L'ultimo a esservi
sottoposto, quattro anni dopo Gabriella Donati, credo sia stato Randle McMurphy,
il finto matto interpretato da Jack Nicholson in: Qualcuno volò
sul nido del cuculo. Ma quello era cinema, finzione ispirata a
un romanzo. Questa è realtà quotidiana. Sullo schermo il capo indiano Bromden,
raffigurato come un gigante buono e pietoso, prima d'evadere dal manicomio
soffocava McMurphy con un cuscino. Cosicché la morale suggerita dal film sembrava
essere la seguente: per restituire la dignità perduta a una larva d'uomo,
bisogna spegnere la vita che non è più vita. L'esatto contrario della morale
che sorregge Giuliano Fiorani da 36 anni, sette giorni su sette, 24 ore su
24. Per dedicarsi totalmente a lei ha lasciato il lavoro. Dopo l'avviamento
professionale è stato operaio all'acciaieria Ilva di Lovere, poi in officina,
poi al tubificio Dalmine di Costa Volpino, dove tra
forni e laminatoi s'è buscato un'asma cronica da far paura, «devo girare col
Ventolin aerosol in tasca, altrimenti potrei
morire asfissiato».
I
due coniugi abitano a Lovere, l'ultimo paese sulla
riva bergamasca del lago d'Iseo. La principessa passa le giornate
seduta in poltrona, con lo sguardo fisso sulla finestra della cucina, da
dove può vedere la collina di San Giovanni. Non sa che appena dietro c'è il
Piano della Palù, «da iscritta al Cai conosceva i sentieri di quella montagna
meglio delle vie di Bergamo, l'unica volta che io ci sono stato, nel
Gabriella
ha lo sguardo stupefatto dei bambini. Le chiedo come sta. «Bene, mi stanco»,
risponde, ma ci vuole il marito per tradurre il grammelot che le esce a fatica
dalle labbra. Le chiedo che cosa pensa dei medici. «Male, perché sono
imbroglioni. Non mi hanno curata. Forse era meglio evitare». Sottinteso:
l'intervento, la lobotomia.
Ogni
mattina Giuliano Fiorani prende sotto braccio la sua principessa e le fa
scendere i 72 gradini in pietra di Sarnico che separano il loro modesto
appartamento, all'ultimo piano di una casa di ringhiera, dal lungolago.
C'impiega un buon quarto d'ora, anche di più, «però è importante, altrimenti le si atrofizzano i muscoli delle gambe». Deve tenerla
stretta a sé per tutto il tempo della passeggiata, «non ha più il senso
dell'orientamento, cammina come gli ubriachi, mi spinge verso destra. A volte
ci scherzo: Gabriella, ma ti vuoi liberare di me buttandomi giù dal
marciapiede, sotto una macchina? Se qualcuno la saluta, lei risponde guardando
in un'altra direzione».
La
principessa pesa appena 40 chili. «Dipendesse da lei,
non mangerebbe mai. Devo imboccarla, un cucchiaino alla volta, come si fa nello
svezzamento. Cerco d'ingolosirla, cucino cose che le piacciono oppure vado a
prendere qualche specialità in rosticceria. Ne pilucca un pezzetto, sembra un
uccellino». Non è che abbia perso le facoltà intellettive, ma le esercita in
modo disordinato, imprevedibile, infantile. Prigioniera di uno stato d'amnesia
permanente, sigillata nella sua prigione di autismo, galleggia nel vuoto.
Nessuno può stabilire quanto capisca e che cosa
capisca né prevedere come reagirà a un discorso o a uno stimolo. «Se le metto
in mano le parole crociate, l'unica cosa che sa fare è copiare: va subito a
controllare le soluzioni alla fine del fascicolo e trascrive le definizioni una
alla volta. Era una ricamatrice appassionata e velocissima. Adesso, dopo tre
anni, continua ad arrovellarsi su
Gabriella Donati fu lobotomizzata per farla guarire dalle terribili crisi epilettiche
che s'erano manifestate nel 1969 dopo la nascita del suo unico figlio, Luca,
che oggi fa il maître a Piacenza ed è sposato con una brava ragazza che ha dato
ai Fiorani tre nipotini di 12,10 e 4 anni. «Le avevano diagnosticato un ematoma
che premeva sul lato destro del cervello, forse se lo portava dietro fin dalla
nascita, avvenuta col forcipe. I medici sostenevano che occorreva intervenire
chirurgicamente per rimuovere il grumo di sangue. Le aprirono la testa. Quando
la pettino, sento ancora il solco nella scatola cranica». Come conobbe sua
moglie?
«Era
segretaria nell'officina meccanica dove mi presentai il giorno dopo essere
tornato dal servizio militare a Silandro, 5° reggimento artiglieria da montagna,
brigata alpina Orobica. Vedo in ufficio questa bella fanciulla e le dico:
ragazzina, dov'è il Baldini? Era il titolare».
E poi?
«Fui
assunto. Il mio tavolo di aggiustatore meccanico era il più vicino all'ufficio.
La Gabriella faceva avanti e indrè tra reparto e magazzino con le bolle di
consegna. Trascorsa una settimana, passandomi accanto mi fa: "Guardi che
io non sono una ragazzina". Ah sì? E quanti anni hai? "Sedici".
A che ora smonti stasera? "Alle 5". Va bene, aspettami alle 5,
allora. Abbiamo cominciato a uscire insieme. Sette anni di fidanzamento e poi
il matrimonio».
Come si manifestò la malattia?
«Con
crisi epilettiche sempre più frequenti. A volte s'accorgeva che stavano
arrivando e s'aggrappava al tavolo. Altre volte cadeva per terra e si spaccava
tutta. Cominciarono a imbottirla di medicine: Gardenale, Luminale, Depakin.
Droghe. Il neurologo teneva il ricettario chiuso in cassaforte. Ma Gabriella
continuava a peggiorare a vista d'occhio. Il bambino non voleva più stare al
collo della madre, era terrorizzato. Qualche volta sono finiti per terra
assieme. Al ritorno dal lavoro cercavo i bozzi sia sulla testa di lei che di
Luca per capire che cosa fosse successo in mia
assenza. Trovavo le spugne intrise di acqua e sangue nel lavandino».
Perché decise di farla operare?
«Lo
consigliavano i medici. "Le togliamo una macchietta che preme sul cervello
e vedrà che entro sei mesi avrà una moglie come tutte le altre", mi spiegò
il professor Cassinari, primario di neurochirurgia all'ospedale di Bergamo, pace
all’anima sua».
Non le parlò di lobotomia?
«No.
E comunque io a quel tempo manco sapevo che cosa fosse,
una lobotomia. Cominciai a spaventarmi quando il
dottor Paoli, l'aiuto del primario, dopo l'intervento mi disse: "Non
preoccuparti, Giuliano, abbiamo raschiato ben bene il cervello". La misero in rianimazione. Dopo tre giorni me la fecero
vedere attraverso il vetro, tirando una tendina: caddi per terra io. Era
completamente pelata, avvolta in un lenzuolo come i morti, con fili e cannucce
che le uscivano da tutte le parti del corpo. Appesi ai cateteri, al posto delle
sacche di raccolta c'erano due guanti da chirurgo nei quali drenavano sangue e
liquidi d'ogni colore. Appena le dita dei guanti erano gonfie, li sostituivano.
Se non me l'avesse indicata un'infermiera, non sarei riuscito a riconoscere la
mia Gabriella da uno qualsiasi degli altri cinque che stavano con lei in
rianimazione».
Tornata a casa, diede segni di miglioramento?
«Per
niente. Avevo portato in ospedale una donna e mi era stata restituita una
bambina. La sua prima fase fu da alunna dell'asilo: "Voglio tornare dalla
mia mamma". "è da
rieducare", sentenziò Cassinari. Dopo sei mesi mi ripresentai nel suo
studio: professore, succede così e cosi, non migliora, quanto tempo ci vorrà
ancora? Lui, accompagnandomi alla porta, concluse gelido: "Se ritiene che
vi sia qualcosa che non va in ciò che ho fatto, si rivolga a un avvocato".
Scendendo per le scale, m'interrogavo: ma perché mi ha detto così? che significa? Nel riferire la frase a mia suocera, scoppiai
a piangere. Non capivo».
Quando capì?
«Parecchi
anni dopo. Dovendo presentare domanda per la pensione d'invalidità, chiesi la
cartella clinica di mia moglie all'ospedale. E lì lessi a quale intervento l'avevano
sottoposta: "Lobotomia temporale destra"».
Sciagurato quanto inutile.
«Infatti le crisi epilettiche diventarono sempre più forti e
frequenti. Un sabato mattina misi Gabriella sulla corriera: voleva andare a
trovare i suoi a Bergamo. lo avrei atteso che Luca
uscisse di scuola e l'avrei raggiunta nel pomeriggio con lo stesso mezzo per
passare il fine settimana dai suoceri. Non arrivò mai a destinazione. Si
presentarono a casa qui a Lovere i carabinieri: "L'autista del pullman,
giunto al capolinea, ha trovato sua moglie addormentata. L'ha scossa per farla
scendere, ma non s'è svegliata. Ha chiamato l'ambulanza......
Era in coma. Un mese e mezzo in rianimazione. Non me la lasciavano vedere.
Chiedevo notizie in continuazione. "Non sappiamo nemmeno se arriverà a
domani", era la risposta».
Intanto chi si prendeva cura di Luca?
«Povero
bambino. Mi chiedeva: "Dove vado oggi? Chi viene a prendermi a
scuola?". Gli lasciavo magari un cartoccio di affettato e due panini in
cucina. Lui tornava da solo e s'arrangiava. lo non ho
mai preso la patente, per cui dovevo correre da un ospedale all'altro
servendomi dei mezzi di linea».
Una volta dimessa, chi custodiva sua
moglie in casa?
«Nessuno.
Telefonavano i vicini in officina: "Dite al Fiorani di correre, la moglie
s'è fatta male, l'abbiamo trovata per terra". Nel 1988 fui costretto ad
abbandonare il lavoro. Non potevo più lasciarla neppure per un attimo. Ha
smesso di cucinare dopo essersi scarnificata un braccio con una padella
rovente. Lo vede questo caschetto da ciclista? Quando devo uscire di casa per
cinque minuti, glielo faccio indossare, così almeno non si rompe la testa se cade mentre va in bagno. lo dormo a
intervalli, non più di quattro ore per notte, perché le crisi epilettiche le
vengono anche nel sonno, e allora bagna il letto e bisogna cambiare le
lenzuola».
Non poteva ricoverarla in un istituto?
«Un
mio parente me lo propose: "Preparo io le carte e ti faccio mettere via la Gabri". Fatti mettere via tu, risposi offeso. Ma
capisco che voleva solo aiutarmi. Potevo far le valigie, andarmene. Avrei
abbandonato un problema. Non me la sono sentita. È sempre stata tanto buona con
me».
Che cosa non va nell'istituto?
Il
pensiero di lasciarla in mano ad altri che magari la trattano male, il non averla vicino. È la mia ragazza. Spero di non venire
a mancare: non voglio lasciarla in difficoltà. Ho lavorato e risparmiato molto
perché possa restare a casa sua. Così riuscirà a occuparsene Luca, quando io
non ci sarò più».
Suo figlio in che modo ha vissuto questa
tragedia?
«Ha
sofferto. Non la chiama mamma. La chiama Gabri. Ma tutti i mesi viene a
trovarla. È un bravo ragazzo. Per fortuna a 22 anni s'è sposato e ha raggiunto
un suo equilibrio».
E i nipotini?
«Quando
dico loro di dare un bacio alla nonna, scappano. Come faceva Luca da piccolo.
Capiscono che qualcosa non va. lo li ricatto: vedete questa macchinina, questa
bambola? Ve le ha comprate la nonna. Allora si rassegnano a darle un bacino».
Perché un matrimonio deve durare in
eterno?
«Due
persone che si amano... È bene che duri il più a lungo possibile».
Crede che sua moglie soffra?
«Gabriella vive in un mondo tutto suo. Pensa che siano
gli altri ad avere dei problemi».
Spera che un
giorno guarisca?
«Ormai non è più possibile. L'ho portata dai migliori
specialisti, e anche da una pranoterapeuta di Bergamo, che m'è costata un bel
po' di soldi. Dopo averle imposto le mani, la signora
ci mandava da un neurologo di sua fiducia, che affermava di riscontrare qualche
segnale di miglioramento e mi raccomandava di non interrompere i trattamenti.
Non ci ho più creduto quando un giorno, in assenza
della pranoterapeuta, a palparla è giunta la figlia della guaritrice. Sarà mica una dote ereditaria?».
S'è mai
augurato che sua moglie muoia?
«Nooo!
È meglio sacramentare e piangere ma averla qui. Sono sincero: fino a sette-otto
anni fa ho acceso molte candele e mandato offerte ai
frati di Sant'Antonio e a Padre Pio, perché guarisse. Poi ho smesso d'andare in
chiesa».
Perché?
«Per
lazzaronismo. A messa sentivo parlare di tutto tranne che del motivo per cui mi trovavo lì».
È mai stato sfiorato dall'idea di porre
fine ai giorni di entrambi?
«Per
l'amor del cielo! Abbiamo il lago qui fuori, però mai, mai! Con quello che
costano i funerali al giorno d'oggi. Non vogliamo far
piangere i parenti».
Di come è morto Piergiorgio Welby che
cosa pensa?
«Avrà
avuto i suoi buoni motivi. Ma il medico che s'è prestato e il cancan che i
radicali ci hanno imbastito su... Io questo Pannella
non lo capisco. Digiuna per la vita e vuole l’aborto».
Per i radicali quella di sua moglie è
non-vita.
«La
mia Gabríella è attaccata alla vita, e come c'è attaccata! E io, nonostante le
imprecazioni e le lacrime, me la tengo stretta, questa vita. Quattro anni fa, a
una visita medica dell'Inps per la revisione dell'invalidità, lo psicologo
insisteva per farle dire che cosa significa
l'aggettivo glabro. lo mi sono permesso di dissentire
e lui m'ha redarguito: "Perché sua moglie migliori, deve
entusiasmarla!". Tornato a casa, s'è accorta che avevo i lucciconi agli
occhi e ha voluto rincuorarmi: "Non stare ad ascoltare quello là". E
una persona così me la chiamano cretina?»
In che cosa trova
conforto nelle sue notti di dormiveglia?
«Nelle ricerche
storiche. Mio padre, operaio all'Ilva, fu epurato perché era stato nella
guardia repubblicana della Rsi. Non aveva commesso alcun crimine. Nell'aprile
del'45 si consegnò ai partigiani, che lo rinchiusero nelle cantine della
canonica. Ogni mattina la perpetua lavava via il sangue dei torturati con le
secchiate d'acqua. Sei legionari della Tagliamento che
erano reclusi con lui furono fucilati al cimitero. Altri due, feriti, furono
prelevati all'ospedale di Lovere e affogati nel lago..
Uno era Emilio Lepera, fratello dell'avvocato Giovanni Lepera di Roma, il
legale di Giampaolo Pansa. Ho
fornito io al giornalista le prove dei misfatti che ha raccontato
nel Sangue dei vinti, stragi dimenticate come quella di Rovetta,
Qual è il senso della vita, signor Fiorani?
«Amarla, la vita. E
saperle dare un senso».